Martina Petrini

Oriente e occidente a confronto. Lo sport tra gioco, agonismo e spiritualità

L’idea di operare un confronto tra la concezione di sport occidentale e quella orientale nasce dall’esigenza di conoscere e approfondire le pratiche orientali, con l’intenzione di arginare fraintendimenti e mettere ordine nel confuso panorama di informazioni riguardanti tali forme di attività motoria. La cultura fisico-sportiva occidentale, infatti, si è appropriata di tecniche di allenamento orientali, spesso in maniera impropria, senza recepirne anche le basi teorico-filosofiche ad esse sottese. Tali discipline, ormai diffuse in ogni parte del mondo, sono state dunque «sradicate dalle culture di origine e rivissute attraverso mentalità e abitudini totalmente diverse»,1 diventando esercizi fisici privi del loro significato più autentico. Proprio per questo, il tentativo di comprendere più nel dettaglio la cultura corporea e sportiva orientale e le sue forme di espressione mira da un lato ad ampliare le nostre prospettive e ad accostarci in maniera più consapevole a culture diverse, dall’altro a stimolare un dialogo tra le due civiltà intorno alla tematica sportiva.

1. Una definizione di sport inclusiva

Prima di intraprendere la nostra analisi dobbiamo affrontare la questione relativa alla definizione dello sport, per valutare la possibilità di includere in essa le discipline fisiche orientali. È necessario specificare che nel nostro confronto prenderemo in esame la concezione dell’attività psicofisica orientale nella sua purezza originaria, cercando di tenere lontane le contaminazioni avvenute a causa della sua diffusione e del contatto con gli sport occidentali. Nella nostra analisi faremo riferimento nello specifico alle arti marziali di matrice orientale, considerate prima di tutto tecniche di autodifesa che presuppongono l’acquisizione di principi etici e filosofici ben precisi, ed, in secondo luogo, discipline fisiche che coinvolgono anche la dimensione spirituale dell’uomo.

Ammettere le discipline orientali tra gli sport propriamente detti non è una scelta ovvia e scontata poiché la loro radicale differenza nell’approccio, nel metodo, nello svolgimento e nello scopo, le rende lontane, se non addirittura completamente estranee rispetto all’ottica utilitaristica e commerciale degli sport che sono nati e si sono sviluppati in Occidente.

Data la difficoltà di inquadrare la cultura sportiva orientale abbiamo bisogno di analizzare due differenti definizioni di sport e metterle a confronto con il profilo delle discipline orientali, al fine di far emergere le principali differenze tra queste e gli sport di matrice occidentale.

In prima istanza, prendiamo in esame la definizione formulata da Bernard Suits, il quale descrive lo sport come «evento competitivo che coinvolge una grande varietà di abilità fisiche e umane (di solito in combinazione con altre), in cui chi vi partecipa viene considerato superiore sulla base delle abilità che ha dimostrato di possedere in modo superiore».2 Questa definizione di Suits, per completezza, deve essere arricchita da ulteriori elementi, che il filosofo statunitense aveva studiato preliminarmente nell’ambito nelle sue ricerche intorno al gioco. Lo sport, infatti, prima di essere analizzato nella sua dimensione agonistica, è indagato per la sua stretta correlazione con il gioco, tanto da essere definito da Suits come un game,3 ovvero come un gioco definito da regole, che deve possedere tre caratteristiche fondamentali per poter essere considerato a tutti gli effetti uno sport: 1. deve essere un gioco di abilità; 2. l’abilità – termine di confronto tra i concorrenti – deve essere un’abilità fisica; 3. deve richiamare l’attenzione di un vasto pubblico.

Se consideriamo lo sport in senso stretto e riteniamo che sia contraddistinto da un lato dalla componente ludica e dall’altro dalla «scelta consapevole e libera dei concorrenti di gareggiare»,4 allora constatiamo l’esclusione di buona parte delle discipline orientali da questa prima definizione. Al contrario, l’attività appena descritta sembra coincidere perfettamente con il profilo degli sport di matrice occidentale, che hanno sviluppato un’organizzazione tale dove la competizione, presente a vari livelli che vanno dal dilettantismo al professionismo, e la ludicità sono i fondamenti dell’intero sistema. Le discipline orientali, invece, non comprendono l’elemento ludico, «nella loro pratica non ha posto il divertimento, il gioco, l’evasione, […] si tratta di attività che richiedono, per rimanere aderenti al loro spirito reale, una completa dedizione, un impegno totale»,5 poiché sono volte alla ricerca di una maturazione spirituale. Inoltre, neanche il concetto di agonismo occupa un posto di primo piano nel contesto sportivo orientale, perché le discipline fisiche nate in tali contesti non sono necessariamente orientate alle competizioni e quando implicano momenti di confronto agonistico, come ad esempio il Sumo,6 il rapporto con gli altri concorrenti è basato sulla collaborazione, sulla complicità e sull’interazione. In queste manifestazioni, infatti, l’attenzione non è focalizzata sul risultato, ma sullo svolgimento della competizione e, proprio per questo motivo, i concorrenti si esibiscono in un confronto rispettoso delle tradizioni e dei cerimoniali collegati a tali pratiche.

Se, come abbiamo visto sopra, il termine sport in senso stretto si riferisce alle attività fisiche competitive, in senso più ampio e generale il termine sport indica «qualsiasi forma di attività fisica che, attraverso una partecipazione organizzata o non, abbia per obiettivo l’espressione o il miglioramento della condizione fisica e psicofisica, lo sviluppo delle relazioni sociali o l’ottenimento di risultati in competizioni di tutti i livelli».7

Dunque, questa seconda definizione ci permette di includere nell’universo sportivo le attività motorie svolte a fini pedagogico-educativi (educazione fisica nelle scuole e tutte le attività di avviamento allo sport rivolte ai bambini o agli adolescenti), le attività fisiche svolte a fini estetici e salutistici, che mirano al raggiungimento di un stato di benessere psicofisico, ed infine le pratiche sportive agonistiche.

Le discipline orientali, ed in particolare le arti marziali, potrebbero rientrare in questa seconda accezione di sport e precisamente potrebbero essere collocate nelle attività volte al miglioramento, al consolidamento e al recupero di determinate condizioni psicofisiche,8 ma per completezza utilizziamo un concetto ancora più ampio di sport in cui includiamo anche «attività che a rigore andrebbero classificate come passatempi, giochi, o all’estremo opposto, come tecniche di condizionamento e addestramento psicofisico a finalizzazione, almeno inizialmente, bellica».9

In conclusione, possiamo affermare che le discipline orientali rientrano nella seconda definizione di sport, che è stata opportunamente ampliata per contenere in essa sia le tecniche di difesa e di crescita spirituale sia tutte quelle attività che non implicano necessariamente la partecipazione ad eventi agonistici.

2. Le discipline fisico-sportive orientali. Lo sviluppo delle arti marziali tra storia e leggenda

La storia delle arti marziali orientali è molto difficile da ricostruire, ma non sembrano esserci dubbi sul fatto che la nascita delle prime forme di combattimento abbia avuto luogo in Cina, durante la dinastia Zhou (XI-III a. C.). L’incontro tra le arti marziali e i principi filosofico-religiosi buddisti è considerato, invece, il momento cruciale per lo sviluppo di tali discipline, che si sono evolute da semplici tecniche di combattimento e di difesa a veri e propri percorsi auto-esplorativi del Sé e di ricerca personale. «Da principio le arti marziali erano finalizzate a uccidere»,10 ma lo spirito dello Zen le trasformò profondamente rendendole custodi ed insieme espressione della «più alta filosofia: l’arte di vivere e di morire».11 A tale proposito, la leggenda narra che fu il monaco buddista indiano (o persiano) Bodhidharma, intorno al 520 d. C., alla fine del viaggio che lo condusse al tempio di Songshan Shaolin (situato nella parte centrale della Cina), ad integrare buddismo e arti marziali. Il monaco buddista illustrò ai monaci del tempio i principi fondamentali delle arti marziali, che venivano utilizzate come tecniche di autodifesa durante periodi di vagabondaggio e di eremitaggio, «oltre che come via per raggiungere l’illuminazione».12 Inoltre Bodhidharma insegnò ai suoi discepoli che «le arti marziali dovevano essere usate solo per favorire la salute del corpo e lo sviluppo dello spirito, non per combattere»13 e proprio questo sarà l’approccio che caratterizzerà tutte le arti marziali, che, distaccatesi definitivamente dalle pratiche bellico-militari, prenderanno sempre più la forma di tecniche di meditazione in movimento.

L’influenza delle discipline cinesi continua ad essere presente nelle arti marziali sviluppatesi in tutto l’Oriente, ma ognuna di esse presenta oggi caratteristiche proprie in base al contesto geografico-territoriale e agli influssi di buddismo, taoismo e confucianesimo.

L’«arte marziale in definitiva è un’espressione atletica del dinamico corpo umano, […] è il dispiegarsi di quello che una persona è»;14 essa può assumere forme diverse – chiamate stili – proprio perché lascia spazio alla creatività psico-corporea dell’uomo e alla sperimentazione, in quanto l’obiettivo è la crescita interiore-spirituale. Non si tratta di eseguire esercizi in maniera meccanica ed inconsapevole, seguendo dei modelli fissi, bensì di esprimere se stessi, la propria personalità, attraverso un movimento, che è incontro e confronto. «Lo stile finisce. L’uomo evolve».15

Dunque, l’obiettivo è quanto vi sia di più lontano dalla competizione esasperata e dalla volontà di autoaffermazione, ricercata attraverso la sconfitta altrui. Nelle arti marziali l’avversario «non è che l’altra parte complementare (e non l’opposto). Non c’è vincitore, lotta, o dominio, dato che l’idea è di accordare armoniosamente i propri movimenti a quelli dell’avversario» . Lo scopo non consiste nel contrapporre la propria forza a quella dell’altro, bensì nel sincronizzare reciprocamente i gesti, il respiro, l’energia, la direzionalità utilizzando la forza dell’avversario, «perché la vera fluidità dei movimenti risiede nella loro interscambiabilità».16

Dunque, le arti marziali, definite come «tecniche di combattimento ma anche discipline fisiche»,17 sono attività capaci di integrare la dimensione psicologica con quella spirituale nello sviluppo delle abilità fisico-corporee e muscolari, muovendosi in direzione dell’equilibrio e dell’armonia della persona. Queste discipline sono praticate non solo per allenare e potenziare le abilità fisiche – quali la forza, la destrezza, l’agilità, la prontezza di riflessi – propedeutiche all’apprendimento delle tecniche di autodifesa, ma soprattutto per intraprendere percorsi di conoscenza del Sé e di miglioramento personale. Inoltre, la finalità delle discipline orientali è principalmente quella di raggiungere uno stato di equilibrio e serenità, attraverso un percorso di maturazione prima di tutto spirituale: l’obiettivo è interiore, non si tratta di ostentare la propria capacità e prestanza fisica, ma di acquisire un livello di conoscenza superiore. Proprio per questo motivo, mentre negli sport occidentali sono frequenti le interruzioni di carriera agonistica a causa di gravi infortuni o a causa del normale logoramento psico-fisico degli atleti che sono sottoposti a carichi di allenamento eccessivi, nelle discipline orientali, ci sono un miglioramento ed un’evoluzione continua.

3. La figura del maestro nella trasmissione delle arti marziali

L’intramontabile affermazione delle arti marziali in Oriente va rintracciata nella convinzione della completezza e della ricchezza insita nella pratica del combattimento, attività volta a sviluppare abilità coordinative e ritmiche, forza ed elasticità muscolare, destrezza e agilità, nonché capacità di distribuire le energie fisiche e mentali, in una relazione non oppositiva, ma trasformativa, con l’altro. In tale contesto, riveste un ruolo di primo piano il maestro, erede della saggezza e dei segreti delle arti marziali, autorevole guida verso la via della conoscenza e della realizzazione, che ha l’obiettivo di condurre i suoi allievi all’autoconsapevolezza psico-fisica, morale e spirituale.

I maestri sono esperti praticanti di una specifica arte marziale, spesso con una preparazione ed uno studio di venti o trenta anni, aderenti ad una scuola o creatori di un particolare stile di combattimento. Proprio per la loro esperienza e sapienza, i maestri sono trattati con il massimo rispetto dagli allievi, ai quali sono pronti ad insegnare tutte le loro conoscenze e tecniche, al fine di condurli sulla “Via” (Do),18 «il metodo di Vita, l’insegnamento per l’ego, la via per comprendere in profondità il proprio spirito».19

Il maestro rispetta i tempi di apprendimento dell’allievo senza fretta e senza imposizioni, cercando di trovare la soluzione educativa migliore in base al carattere e alle attitudini dell’allievo, il quale a sua volta deve predisporsi agli insegnamenti portando con sé: «buona educazione, appassionato amore per l’arte da lui scelta e venerazione incondizionata del maestro».20

La figura del saggio maestro di arti marziali sembra l’antitesi del profilo di alcuni allenatori occidentali, impegnati principalmente nello sfruttamento delle capacità fisiche degli atleti e nel tentativo di ottenere prestazioni che spesso si spingono oltre i limiti umani, grazie all’utilizzo di sostanze e pratiche dopanti (illecite).

Pur cercando di rimanere lontani dal pericolo di generalizzazioni e accuse semplicistiche, dobbiamo constatare la grande diffusione del doping ad ogni livello, l’abbandono precoce dello sport tra i giovani e l’altissima percentuale di infortuni negli sport occidentali, tutti sintomi evidenti dei problemi e delle degenerazioni dell’ambiente sportivo, dove hanno un ruolo fondamentale gli allenatori, spesso anche loro intrappolati nell’ottica del guadagno, del successo, della vittoria ad ogni costo. «Gli educatori odierni sono responsabili di questo stato di cose: allenano il corpo, la tecnica, ma non la coscienza. I loro allievi si battono per vincere, giocano alla guerra come bambini. Non c’è alcuna saggezza in tutto ciò. Non aiuta a dirigere la propria vita!».21

Gli spunti e le tematiche emersi dal confronto con la cultura fisica orientale possono dare un contributo decisivo per riflettere intorno ai ruoli e alle responsabilità di tutte le persone che operano nei contesti sportivo-educativi, primi fra tutti atleti e allenatori; essi hanno la possibilità di opporsi al sistema record-denaro-successo, semplicemente non aderendovi e denunciando proposte indegne per l’uomo e per lo sport. Infatti, il maestro – l’allenatore – è la guida verso la consapevolezza, l’esempio di rispetto, giustizia, lealtà, colui che rimane al fianco dell’allievo sempre, soprattutto durante le difficoltà, per aiutarlo a superarle, fino a renderlo autonomo. Proprio per questo le arti marziali hanno adottato il metodo d’insegnamento Zen, in cui c’è una «trasmissione diretta dello spirito»22, che «si compie i shin den shin, “dalla mia anima alla tua”».23

4. Una classificazione delle arti marziali. Arti interne e arti esterne

Per operare una classificazione delle arti marziali di matrice orientale, prendiamo in considerazione quelle che hanno avuto maggiori sviluppo e diffusione nel panorama mondiale, distinguendole in base al paese di origine (Cina, Giappone e Corea), consapevoli che gli influssi reciproci e i rapporti che intercorrono tra le seguenti discipline sono molto complessi e articolati.

Tra le più importanti e conosciute arti cinesi, ricordiamo il Wu Shu, noto in occidente come Kung fu, il Tai Chi Chuan e il Chi Kung (queste ultime due costituiscono tecniche complementari). Di matrice giapponese menzioniamo, invece, il Kendo e il Kenyutsu tra le tecniche che prevedono l’uso della spada; il Sumo, il Kempo – dal quale deriva il Karate – e il Judo tra le tecniche di combattimento a mani nude e il Kyudo che è il tiro con l’arco. Infine tra le varie arti marziali coreane le più diffuse sono l’Hapkido e il Taekwondo, come tecniche a mani nude, e il Kook Sol Won che unisce alle tecniche a mani nude anche l’uso di armi tradizionali. Tra le arti marziali orientali, le uniche a comparire tra le discipline olimpiche sono il Judo, che è stato introdotto ufficialmente nel programma dei Giochi olimpici nell’edizione di Tokyo 1964, e il Taekwondo, comparso come sport dimostrativo alle Olimpiadi di Seul 1988 e Barcellona 1992, per diventare disciplina olimpica ufficiale a Sydney 2000. Questo fatto dimostra da un lato il carattere eurocentrico delle Olimpiadi e la mancata comprensione delle pratiche extra-occidentali, dall’altro ci permette di sottolineare ancora una volta la differenza tra la cultura fisica orientale rispetto a quella occidentale, dato che molte pratiche di matrice orientali sembrano non contenere affatto l’elemento agonistico.

Per comprendere meglio questo punto dobbiamo fare un’ulteriore precisazione, illustrando la distinzione, che viene fatta soprattutto in ambito cinese, tra arti marziali morbide (o interne), quali ad esempio il Tai Chi Chuan e il Chi Kung, e le arti dure (o esterne), come il Kung fu o il Karate. Le prime hanno l’obiettivo di sviluppare l’energia interiore e di controllare il corpo e le sue reazioni attraverso la mente. Possono essere svolte individualmente o a coppie, ma non c’è contatto tra gli avversari, che si affrontano idealmente attraverso movimenti coordinati, spesso simili ai passi di una danza. Le arti morbide sono più introspettive e curano l’elasticità e il rilassamento muscolare attraverso esercizi dove sono centrali la respirazione e la meditazione, e proprio per questo tali tecniche sono usate anche a fini terapeutici.

Le arti dure, invece, oltre ad utilizzare esercizi di meditazione e di respirazione, prevedono anche allenamenti atti a sviluppare la forza e la potenza muscolare, insegnando accanto alle tecniche di difesa, anche alcune tecniche di offesa. L’allenamento mira all’acquisizione della capacità di reagire istintivamente ai colpi dell’avversario, per neutralizzare le sue mosse e utilizzare la sua stessa forza contro di lui.

5. Conclusione: Verso un’educazione psicomotoria ispirata all’Oriente

Dall’analisi condotta nei precedenti paragrafi, emerge in primo luogo la distanza tra la cultura sportiva orientale e quella occidentale, ed in seconda istanza la difficoltà di cogliere concettualmente i presupposti filosofico-religiosi che stanno alla base delle discipline orientali. Come afferma il maestro Deshimaru, «Il loro segreto […] è che in esse non esiste né vittoria né sconfitta»,24 perché non c’è scontro con l’altro e l’azione non si realizza in un arco temporale definito, bensì nella pienezza del momento presente. Intraprendendo la pratica di un’arte marziale si apprende ben presto di avere a che fare con una «faccenda di vita e di morte»25 perché l’allievo si trova a lottare con se stesso, e ad affrontare l’ardua sfida del distacco totale da sé e da qualsiasi forma di intenzionalità. In questo discorso c’è qualcosa che sfugge alla nostra comprensione, perché, come dicono i saggi maestri orientali, è solo nella pratica e nell’esperienza che potremmo effettivamente afferrarla. E questo qualcosa è il senso dell’arte marziale, che è appunto semplicemente “arte”, e la «vera arte […] è senza scopo, senza intenzione!».26

Consapevoli della difficoltà e della complessità del messaggio offerto dalle arti marziali, soprattutto per un osservatore esterno che non ha mai praticato in prima persona tali discipline, citiamo un episodio che riguarda Eugel Herrigel (autore del testo Lo zen e il tiro con l’arco),27 che dopo un lungo periodo di permanenza in Giappone, nel quale ha seguito insegnamenti di tiro con l’arco, si sentì dire queste parole dal suo maestro: «Dei colpi cattivi non deve irritarsi, questo lo sa da un pezzo. Impari anche a non rallegrarsi di quelli buoni. Lei deve liberarsi dell’altalena del piacere e dispiacere. Deve imparare a starne al di sopra con distacco e indifferenza e perciò a rallegrarsi come se un altro e non lei avesse tirato bene».28 Questo ostico precetto non è facilmente decifrabile ed attuabile nella società odierna, dove l’individuo, animato dalla sola volontà di autoaffermazione, è impegnato senza sosta nel tentativo affannoso di imporsi sugli altri. Nello stesso tempo, l’insegnamento che il maestro ha impartito a Herrigel sembra in linea con quello di Roger Caillois, il quale affermava: «Accettare l’insuccesso come semplice contrattempo, la vittoria senza ebbrezza né vanità; questo distacco, quest’ultima riserva nei confronti della propria azione, è la legge del gioco».29 Anche se il messaggio del maestro di Herrigel può sembrare, per certi aspetti, simile a quello di Caillois, vi è una differenza fondamentale: Caillois parla delle dinamiche dell’attività ludica e ci invita a compiere un passo fuori dal cerchio magico del gioco, per scorgere la differenza tra gioco e realtà; mentre le arti marziali ci insegnano l’arte di vivere il momento presente, che è l’unica vera realtà, per svincolarci del meccanismo che ci porta ad oscillare tra trionfi e fallimenti, aspettative e delusioni.

In conclusione, possiamo affermare che, nonostante le profonde diversità tra le concezioni fisico-sportive analizzate, un punto di contatto può essere rintracciato nella comune e condivisa consapevolezza del potenziale educativo dello sport, che corrisponde alla capacità di veicolare messaggi importanti per la crescita psico-fisica dell’uomo.

In Occidente, lo sport ha smarrito quasi completamente la sua vocazione pedagogica e, a causa della sovrastruttura organizzativa ed economica, il gioco è diventato lavoro, la crescita armonica della persona si è trasformata nell’esasperante tentativo di abbattere record sottoponendo il corpo a sforzi eccessivi, i valori educativi sono stati sostituiti dalla ricerca della vittoria e del successo. Ma anche se lo sport si è tramutato nell’antitesi di se stesso, non vuol dire che le sue caratteristiche originarie siano andate perdute per sempre.

Fin dall’antichità, il potenziale pedagogico-educativo dello sport ha sempre goduto di grande rispetto e riconoscimento, ma, forse, non è mai stato applicato fino in fondo, né in ambito scolastico né in contesti agonistici. Dunque, bisogna riscoprire il valore umano dello sport, proponendo attività che rispettino la persona, la corporeità, le età e le fasi di crescita, le esigenze e le aspettative. In un tale contesto, lo sport può rappresentare un sostegno per l’uomo e per la comunità, un’occasione per crescere, per conoscersi ed esplorare se stessi, per migliorare le proprie abilità fisiche, ma anche la propria capacità di relazionarsi con l’altro. Per questi motivi, uno sguardo alla concezione orientale di attività psico-fisica può aiutarci a riscoprire uno dei volti più promettenti e positivi dello sport: quello che mira al benessere e alla crescita armonica della persona.

Copyright © 2017 Martina Petrini

Martina Petrini. «Oriente e occidente a confronto. Lo sport tra gioco, agonismo e spiritualità». Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 19 (2017) [inserito il 30 giugno 2017], disponibile su World Wide Web: <https://mondodomani.org/dialegesthai/>, [29 KB], ISSN 1128-5478.

Note
  1. Francesco Corletto, L’uomo e lo sport. Cultura fisica e attività sportive tra oriente e occidente, ed. Pegus, Paese, Treviso, 1992, p. 78.
  2. Bernard Suits, The Tricky Triad: Games, Play and Sport, in Journal of the Philosophy of Sport”, 15:1, pp. 1-9, 1988, p. 3.
  3. Bernard Suits evidenzia la differenza tra i due concetti play e game. Il termine play indica l’impulso ludico autotelico, spontaneo e incontrollabile, mentre la parola game indica il gioco regolato, che prevede una struttura organizzativa più complessa.
  4. Martin Bertman, Filosofia dello sport. Norma e azione competitiva, [2007], trad. it. e prefazione a cura di Giuseppe Sorgi, Guaraldi, Rimini, 2008, p. 40.
  5. Corletto, L’uomo e lo sport, cit. p. 80.
  6. Il Sumo è lo sport nazionale del Giappone ed è una delle varie tipologie di lotta a mani nude.
  7. Consiglio d’Europa, Comitato per lo Sviluppo dello Sport, Carta europea dello sport, Rodi 13-15/05/1992, p. 3.
  8. Alcune discipline orientali hanno un risvolto competitivo, due esempi fra tutti sono il Taekwondo e il Judo, che sono a tutti gli effetti discipline olimpiche. Vedi paragrafo 4, p. 8.
  9. Corletto, L’uomo e lo sport, cit., p. 71.
  10. Taisen Deshimaru, Zen et arts martiaux [1977], Lo zen e le arti marziali, trad. it. di Fausto Guareschi, SE, Milano, 1995, p. 61.
  11. Ivi, p. 76.
  12. Howard Reid, The Way of Harmony [1988*], Il libro delle arti marziali morbide. L’armonia del corpo e della mente*, trad. it. di Giovanna Nobile, Lyra libri, Asso (CO), 2001, p. 14.
  13. Ibidem.
  14. Bruce Lee, Il Tao del Dragone. Verso la liberazione del corpo e dell’anima, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, 2006, p. 273.
  15. Ivi, p. 19.
  16. Lee, Il Tao del Dragone, cit., p. 20.
  17. Corletto, L’uomo e lo sport, cit., p. 76.
  18. Il termine Do in giapponese significa “Via” e tutte le arti giapponesi contengono questa parola: Kendo è la Via della spada, chado è la cerimonia del tè, Butsudo (Buddhismo) è la Via del Buddha.
  19. Deshimaru, Zen et arts martiaux, cit., p. 53.
  20. Eugen Herrigel, Zen in der Kunst des Bogenschiessen [1948*], Lo zen e il tiro con l’arco*, trad. it. Di Gabriella Bemporad, Adelphi, Milano, 2016, p. 57.
  21. Deshimaru, Zen et arts martiaux, cit., p. 43.
  22. Herrigel, Zen …, cit., p. 63.
  23. Deshimaru, Zen et arts martiaux, cit., p. 94.
  24. Deshimaru, Zen et arts martiaux, cit., p. 31
  25. Herrigel, Zen …, cit., p. 19.
  26. Ivi, p. 46.
  27. Herrigel, Zen… , cit..
  28. Ivi, p. 82.
  29. Roger Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine [1958], trad. it, di L.Guarino, Bompiani, Milano, 1995, p. 14.

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